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    La Città di Ottone, di S. A. Chakraborty | Che cos’è la Città di Ottone?

    Buongiorno lettori! Questo sabato è un po’ particolare perchè voglio ospiterò la seconda tappa del blogtour dedicato all’uscita de LA CITTÀ DI OTTONE di S. A. Chakraborty, evento iniziato ieri sul blog di Sunflakes che ha approfondito l’incredibile worldbuilding del libro. Oggi scenderò nel dettaglio raccontandovi che cos’è precisamente La città di Ottone, com’è fatta, chi ci vive e via con tutti i dettagli! 😉

    Più sotto nel post trovate tutto questo, ma prima volevo lasciarvi il calendario dell’evento nel caso siate curiosi di conoscere questo meraviglioso libro prima della sua uscita in libreria il 3 giugno 2020

    Evento organizzato dalla mitica Miriam del blog Me and Books che ringrazio, insieme alla casa editrice che ha fornito la copia del libro in anteprima per la recensione.

    Ma passiamo al fulcro di questa tappa, ovvero vi racconto qualcosina sulla Città di Ottone, un luogo affascinante e ricco di mistero, oltre che di storia! 

    CHE COS'È LA CITTÀ DI OTTONE?

    La città in questione si trova su un’isola, al centro del lago Gozan, protetta da un velo che la rende irraggiungibile dagli estranei, e il vero nome della Città di Ottone è Daevabad. Ma entrambi gli appellativi hanno un chiaro e coerente significato in quanto la città è stata fondata dalla Daeva Anahid, antenata della famiglia Nahid che ha governato la città fino ad un cambio di potere, dovuto ad una rivolta, ma i volti dei capostipiti fondatori restano impressi sulle possenti mura di ottone che circondano l’intera città, un monito del passato indelebile per la famiglia di jinn saliti al trono. 

    All’interno della città vivono i jinn, diretti discendenti dei daeva, e gli shafit, l’incrocio tra jinn e umani. Tra queste due classi esiste una forte distinzione, non solo nelle origini, ma anche all’interno della città. Gli shafit vengono definiti “di sangue misto” dai jinn, che si reputano invece “purosangue”, e per questo posti ad un livello inferiore, tanto da essere costretti a regole precise, tra cui quella di non poter possedere armi, ecco perchè si ritrovano sempre più in una situazione di svantaggio di fronte ai soprusi perpetrati da parte dei jinn.

    I jinn da parte loro sono esseri bellicosi e fedeli solo alla propria famiglia, soprattutto dopo la rivolta che scombinò gli equilibri della città. Allora furono divisi in sei tribù da Solimano, il profeta-re umano, una scelta avveduta considerato che aveva come scopo preciso quello di provocare il maggior disaccordo possibile: più tempo i jinn passano a combattere tra loro e meno ne hanno per tormentare gli umani e gli shafit.

    Queste divisioni le vediamo chiaramente anche nella struttura della città nel cuore della quale si trova la maidan, la piazza centrale che divide le diverse zone di Daevabad. Una piazza racchiusa da un muro di rame che con il tempo è ormai diventato verde e in cui si aprono sette porte a distanza regolare. Ogni porta da su un diverso distretto tribale, la settimana invece conduce al Gran Bazar che porta poi ai rioni abitati dagli shafit.

     Il fascino di questa piazza, oltre a quello di rispecchiare chiaramente la struttura sociale degli abitanti di Daevabad, sta nelle caratteristiche delle singole porte, cui l’autrice dedica un abbondante paragrafo che vi lascio qui di seguito perchè mostra non solo la sua grande creatività e immaginazione ricca di dettagli, ma anche la divisione delle singole tribù.

    “Le porte della maidan erano sempre uno spettacolo per gli occhi.
    C’era la Porta Sahrayn, con colonne coperte di piastrelle bianche e nere intorno alle quali si arrampicavano viti cariche di grappoli viola. Accanto c’era la Porta Ayaanle, due strette piramidi borchiate e coronate da un rotolo di pergamena e un mucchietto di sale. La successiva era la Porta Geziri, nient’altro che un’arcata di pietra dal taglio perfetto; come sempre, il popolo di suo padre dava più importanza alla funzionalità che all’estetica. Sembrava ancora più semplice accanto alle ricche decorazioni della Porta Agnivanshi, con decine di figure danzanti – le cui mani delicate sostenevano lampade a olio dalla luce tremolante, piccole come stelle – scolpite nell’arenaria rosata. La seguente era la Porta Tukharistani, uno schermo di giada levigata che rifletteva il cielo notturno, con intagli incredibilmente intricati.
    Eppure, per quanto meravigliose potessero essere, l’ultima porta – la prima a ricevere i raggi del sole ogni mattina, la porta del popolo originario di Daevabad – le eclissava tutte.
    La Porta Daeva.
    L’ingresso al quartiere daeva – perché gli adoratori del fuoco, con arroganza, avevano assunto il nome originario della razza come nome della loro tribù – era proprio di fronte al Gran Bazar; le sue enormi porte a pannelli erano dipinte di un azzurro pallido che sembrava preso direttamente da un cielo appena lavato dalla pioggia, e vi erano incassati dischi di arenaria bianca e dorata che formavano un motivo triangolare. I battenti erano fiancheggiati da due enormi she¯du di ottone; le statue erano tutto ciò che restava dei mitici leoni alati cavalcati, secondo la leggenda, dagli antichi Nahid durante la battaglia contro gli ifrit”.

    Una visione unica che va dispiegandosi in quartieri ancora più ridondanti di bellezza e di arte, ponendosi in netto contrasto con i quartieri degli shafit, cui si accede come detto dal Gran Bazar e che oltre ad essere sovraffollati mostrano senza remore la condizione poco dignitosa in cui questi abitanti della città vivono rispetto ai loro “vicini”. I soprusi, il peso delle regole ferree e la loro condizione subordinata è chiara in ogni vicolo, sin dal Gran Bazar, un luogo che l’autrice ci descrive in modo affascinante con le sue meraviglie tipiche e le magie che gli shafit compiono quotidianamente, ma aggiungendo dei dettagli decadenti, vizi di perdizione, disconnessione da quella realtà.

    Una realtà in cui un jinn può fare ciò che vuole e in cui gli shafit sono trattati come feccia, spesso come schiavi, tanto da creare una tratta illegale di shafit, persino e soprattutto di bambini.

    Una città quindi estremamente precaria a livello sociale, in cui il forte divario tra le due popolazioni si allarga di giorno in giorno, creando fratture inarrestabili e insinuando sempre più il senso di una nuova rivolta. Una città affascinante e decadente, dalla storia unica eppure ripetibile, che mostra tutta la sua bellezza dalla penna dell’autrice e altrettante ferite nel corso della narrazione. 

    Una città di cui vi ho già detto abbastanza, perchè per conoscerla meglio vi suggerisco di leggere il libro, le cui ambientazioni uniche e la trama appassionante non potranno far altro che conquistarvi, parola mia! 😉

    Ed ora vi saluto, ma vi invito a seguire l’evento ancora una volta per conoscere a fondo le meraviglie celate in questo libro, il primo di una trilogia, di cui vi parlerò nella recensione che uscirà qui sul blog il 3 giugno, mi raccomando non mancate! 😉

    franci
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